Molte organizzazioni sono afflitte dalla “sindrome della scopetta”. Di cosa si tratta? Ve lo spiego subito.
Quando mia figlia, oggi trentenne, aveva si e no cinque anni, ricevette in regalo una bellissima scopetta giocattolo. Non di plastica eh, il manico era di legno e la spazzola in saggina. Insomma era la riproduzione, in miniatura, delle scope di altri tempi, quelle delle nonne.
Mia figlia se ne innamorò e passo le giornate successive a giocare con quell’affascinante oggetto. Girava per casa simulando uno stato di agitazione, agitando la scopetta per terra, spostando polvere e pronunciando, ripetendole, sempre le stesse parole: ho troppe cose da fare, ho troppe cose da fare, ho troppe cose da fare…
Mi pare un’impeccabile metafora di un certo atteggiamento che si respira anche nelle organizzazioni: dimostrare di essere impegnatissimi. Lo si vuole dimostrare tanto a se stessi, quanto agli altri e segnatamente al capo. Anche nelle organizzazioni si spendono tante energie a spostare polvere a scopo dimostrativo, anche nelle organizzazioni il mantra del super-impegno va per la maggiore.
Nel tempo dello smart working il refrain non è così cambiato: si lavora di più a casa che in ufficio! Non si ha un momento di tregua! Non si stacca mai! Non c’è neppure la pausa caffè con i colleghi! Insomma, non si può più dimostrare il proprio super-impegno girando per i corridoi con la propria scopetta tra le mani, e allora ci si limita a raccontare quanto la si usi a casa.
Eppure, tra i tanti benefici effetti che può determinare il tempo dello smart working, c’è anche questo, il superamento della sindrome della scopetta. Non è facile, occorre innanzitutto spostare il focus da tempo-spazio-obiettivi a scopi. Occorre inoltre superare l’idea che il bilanciamento tra vita professionale ed extra-professionale si ottenga separando, nel tempo dello smart working si ottiene, al contrario, integrando.
Bisogna lavorarci.