Quando si dice “miglioramento”, si intende normalmente “correzione dei difetti”. Se correggerò tutti i difetti, otterrò la perfezione! Questo si pensa.
Utilizziamo questo atteggiamento quando pensiamo al nostro miglioramento, ma anche quando pensiamo a quello degli altri ed anche al miglioramento di un’organizzazione. Nelle organizzazioni, ad esempio, gli stessi Sistemi per la Gestione della Qualità, producono miglioramento attraverso la progressiva riduzione delle cause che generano le cosiddette “non conformità”. Certo, riducendo le difettosità si avanza e si ottengono allineamenti con standard di qualità predefiniti, ma l’eccellenza è un’altra cosa: essa si persegue potenziando i fattori di successo molto più che correggendo le carenze. La correzione dei difetti va finalizzata alla possibilità di espressione dei talenti. Vale per le organizzazioni come vale per gli individui.
Sostengo la tesi secondo la quale correggere i difetti non sia sufficiente, sia talora inutile, ma a volte addirittura dannoso: il vero avanzamento si ottiene scovando e dando spazio a quei fattori che consentono prestazioni fuori dal comune. Essi sono talora riscontrabili in apparenti carenze. Miglioramento non significa dunque solo e tanto “riduzione dei difetti”, quanto soprattutto “liberazione e potenziamento dei talenti”.
L’orientamento alla riduzione dei difetti deriva dall’illusione di poter raggiungere la perfezione, intesa come azzeramento delle carenze. L’orientamento al potenziamento dei talenti favorisce invece la crescita e la messa in luce della bellezza.
Non è per nulla facile adottare un atteggiamento centrato sulla ricerca del bello contenuto nell’imperfetto. Siamo nati e cresciuti in una ben differente cultura. La ricerca della perfezione ci appartiene in modo ancestrale. Le stesse religioni sono spesso interpretate alla luce di questa lente deformante.
Il messaggio evangelico è, ad esempio, in gran parte incentrato sulla valorizzazione della persona umana attraverso il risalto delle luci sopite o nascoste: la parabola dei talenti ne è evidenza didascalica. Secondo la parabola, il viatico a disposizione di ciascuno per servire se stessi, l’umanità e lo stesso Dio, è rappresentato dalla messa a frutto dei propri talenti, dal desiderio di dare il meglio di sé, dal coraggio di mettersi in gioco. Allo stesso modo, il peggior torto che un essere umano possa compiere verso se stesso e verso il mondo, è rappresentato dal nascondere, per paura, il proprio talento.
Dal mio punto di vista, per omaggiare autenticamente il messaggio evangelico, il sacerdote non dovrebbe essere così tanto interessato alla fallacia del fedele, dovrebbe semmai esortarlo a prendere coscienza del meglio di sé. In questo senso il rapporto col sacerdote non dovrebbe incentrarsi sulla confessione dei peccati, ma sulla rivelazione di sé.
La stessa religione buddista, così fortemente incentrata sul coraggio di mettersi in discussione, sulla volontà di “avanzare sempre”, sullo “spirito di ricerca”, sul senso della sfida e della “missione personale”, quindi sulla ricerca della piena espressione di sé, è spesso interpretata attraverso un’ossessiva e frustrante pratica di correzione dei difetti.
Anche nella formazione ( a partire da quella scolastica) è egemone la cultura della carenza su quella del talento. Lo stesso si dica al riguardo della vita nelle organizzazioni aziendali. D’altronde questo approccio ci attanaglia anche nella relazione con i nostri famigliari (segnatamente coi figli) e in generale nel rapporto con chi ci sta intorno.
Scegliere la cultura del talento, presuppone saper accettare le ombre (di un individuo o di un’organizzazione), ma anche saperne cogliere le luci nascoste. È nelle luci nascoste all’interno delle zone buie, che si disvela la magia della crescita e della realizzazione.