In questi ultimi anni, ho sofferto di un crescente fastidio nell’osservare, nel mondo aziendale, il rifiorire di teorie, esortazioni e prediche rispetto ai temi della leadership e del talento. Si tratta di temi ai quali ho dedicato il mio intero percorso professionale e dovrei quindi essere contento di questa attuale incontinenza nel parlarne. E invece no, non lo sono affatto. Come mai? Mi sono interrogato e ho cercato le risposte ripercorrendo la mia esperienza professionale.
Quando agli inizi degli anni ’90, grazie al fortunato incontro con Alberto Cappelli e Mario Altieri, ho iniziato a occuparmi di formazione, non era certo raro che un capo-reparto, a fronte di un suggerimento di miglioramento proveniente da un operatore di linea, gli si rivolgesse con un’espressione come “taci, tu non sei pagato per pensare, sei pagato per lavorare”. Detto oggi fa impressione, ma era davvero così. Oggi un capo-reparto che si comportasse in quel modo, non solo condannerebbe la sua organizzazione all’insuccesso, ma rischierebbe il licenziamento con giusta causa.
Grazie a diversi fattori, fra cui l’affermarsi della cultura della qualità e la divulgazione di modelli di leadership di stampo umanistico, il coinvolgimento delle persone nei processi di miglioramento è divenuto un principio ampiamente condiviso, magari non praticato fino in fondo, ma certamente condiviso.
A partire dagli anni 2000, io stesso, nel mio piccolo, ho dato vita a diverse iniziative volte a consolidare modelli organizzativi e manageriali partecipativi, alludo in particolare al sistema di formazione permanente Leadership Eccellente e al seminario Leadership e Amore frequentati in quegli anni da migliaia di manager. Anche grazie a iniziative di questo tipo, il termine “emozione”, all’epoca vero e proprio tabù, è nel tempo divenuto di uso piuttosto comune.
In quegli stessi anni, ho pubblicato con Sperling&Kupfer tre novelle manageriali (oggi ristampate da Shamba Edizioni nella trilogia Gli eroi normali) con le quali ho cercato di contribuire all’affermazione di modelli di leadership orientati alla promozione della crescita delle persone e alla valorizzazione del loro talento. Anche questo principio, diciamolo, si è affermato e nessun manager oserebbe oggi contestarlo.
Per quanto questi temi siano tornati di attualità, vale la pena ricordare che già negli anni ’90 Daniel Goleman e Jhon Kotter li proposero con le loro opere Emotional Intelligence e Leading Change, secondo me pietre miliari del tempo. Insomma, cari guru degli anni 2020, vorrei informarvi del fatto che state conducendo una battaglia che è già stata vinta una ventina d’anni fa. Oggi non abbiamo bisogno di nuovi guru né di manager predicatori, men che meno abbiamo bisogno di consulenti e formatori accodati ai rivoluzionari di professione, intenti nel rivendicare un immaginario mondo perfetto, lasciando quello reale così com’è.
E allora? Di cosa abbiamo bisogno? Non serve affermare con voce più alta principi ormai condivisi, serve invece fornire strumenti concreti per la loro applicazione. Non servono “business partner” che fanno gli evangelizzatori, essi devono semmai porsi come “consulenti interni”, esperti degli strumenti finalizzati ad applicare i principi del coinvolgimento delle persone e dell’esercizio di una leadership sostenibile. Avete presente quei manager che parlano di talento un giorno sì e l’altro pure? Bene, provate a chiedere loro quali tecniche propongono per esplorare e identificare il talento delle persone. Chiedetegli anche quali strumenti suggeriscono di utilizzare per applicare tali tecniche. Nella stragrande maggioranza dei casi, non otterrete alcuna risposta seria.
Viviamo nell’epoca 4.0, è l’epoca degli strumenti e delle app, facciamocene una ragione. Bisogna aprire cerchi nuovi, privi di orpelli ideologici: meno prediche e più strumenti. Non abbiamo più bisogno di manager illuminati e guru visionari, scialla ragazzi, scialla, concentriamoci sul mettere a disposizione delle persone più strumenti per fare bene e rapidamente le cose.
Certo, concentrandosi sugli strumenti, si hanno meno opportunità di soddisfare la propria vanità: niente discorsi memorabili, niente cuori e applausi nelle chat. Ma è così, è venuto il momento del leader-scialla. L’atteggiamento del leader-scialla é incentrato sul valore dell’essenzialità:
- Non pontifica, supporta
- Non predica, fornisce strumenti
- Non manipola, condivide regole inequivocabili
- Non si prende troppo sul serio, é auto ironico
- Non propone rivoluzioni, promuove il concreto miglioramento
- Non pretende di cambiare le persone, le accetta per come sono
Per quanto mi riguarda, ormai ultra-sessantenne, ho rivisto radicalmente la mia missione professionale e oggi mi occupo di events & food.
Vivo questo cambiamento come una liberazione da un mondo del quale non sopporto più la retorica. Non mi va più di essere chiamato consulente né formatore né coach, preferisco essere considerato un oste. Un oste di esperienze, cibi e pensieri.